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La Rivoluzione del 1989 è iniziata a Timișoara

I romeni continuano a evocare la Rivoluzione anticomunista, che ha cambiato il destino del loro Paese.

Foto: Iulia Opran/RRI
Foto: Iulia Opran/RRI

, 16.12.2025, 11:24

Insediata alla fine della seconda guerra mondiale dalle truppe sovietiche di occupazione, la dittatura comunista in Romania si è perpetuata per quasi mezzo secolo e, come un colosso dai piedi d’argilla, è crollata nel giro di una sola settimana. Stanchi dell’austerità estrema imposta dal regime di Nicolae Ceaușescu, della fame, del freddo e del buio, esasperati dalla mancanza delle libertà elementari e incoraggiati dal crollo a catena delle dittature rosse negli altri Paesi dell’Europa orientale, i romeni avevano bisogno solo di una scintilla per scendere in strada.

Il 16 dicembre 1989, la protesta di alcune decine di sostenitori del pastore riformato di etnia ungherese László Tőkés, che le autorità volevano deportare da Timișoara (ovest), si trasformò in una vera e propria rivolta. Centinaia, poi migliaia, poi decine di migliaia di abitanti di Timișoara, di diverse etnie e confessioni, si unirono ai primi manifestanti. Le forze di repressione ricorsero immediatamente agli arresti. Poi l’esercito, la Securitate (la polizia politica del regime) e la milizia aprirono il fuoco contro i dimostranti. Le officine, le fabbriche e l’Università scesero in sciopero, operai e studenti si unirono alle manifestazioni, mentre l’esercito si ritirò nelle caserme.

Il 20 dicembre Timișoara diventava la prima città romena libera dal comunismo. Il 21 dicembre, la Rivoluzione si estese ad altre grandi città dell’ovest e del centro del Paese e culminò a Bucarest con proteste di massa, che i comunisti tentarono ancora una volta di reprimere nel sangue. Il 22 dicembre Ceaușescu fuggiva dalla sede del comitato centrale del partito, assediata da centinaia di migliaia di persone. Catturato, processato sommariamente e fucilato il 25 dicembre, lasciò dietro di sé un Paese in rovina e insanguinato.

Oltre 1.100 persone morirono nel periodo 16–25 dicembre 1989, la maggior parte dopo la fuga di Ceaușescu. All’epoca, queste vittime furono attribuite ai cosiddetti terroristi, fedeli alla dittatura, la cui identità non è stata stabilita nemmeno oggi. I procuratori militari che hanno rinviato a giudizio il cosiddetto “Processo della Rivoluzione” accusano tuttavia colui che allora era percepito come il leader politico del cambiamento di regime, ex ministro degli anni ’70, poi caduto in disgrazia, Ion Iliescu, e i suoi collaboratori, di aver creato una vera e propria psicosi terroristica che ha alimentato la perdita di vite umane. Il massacro, destinato a legittimare le nuove autorità, ebbe l’effetto sperato.

A maggio 1990, alle prime elezioni libere dopo dicembre, Ion Iliescu vinse con l’85% dei voti sin dal primo turno delle presidenziali. Il suo partito – il Fronte della Salvezza Nazionale – si aggiudicò due terzi dei seggi nel Parlamento appena creato. I procuratori sostengono inoltre che la squadra di Iliescu si sia costituita come “un raggruppamento dissidente con l’obiettivo di rimuovere l’ex presidente Nicolae Ceaușescu, ma di mantenere la Romania nella sfera di influenza dell’URSS”. Oggi, membro dell’Unione Europea e della NATO e profondamente legata ai valori democratici occidentali, la Romania stessa è la prova più evidente che lo scenario dei complottisti filo-moscoviti è fallito.

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